Chiamato alle armi il 1* marzo 1933, ed assegnato al 11° Reggimento Genio era congedato il
30 ottobre 1934 col grado di caporale. Richiamato nel 10° Reggimento Zappatori partiva per
l'Eritrea il 29 Settembre 1935 con la 3° Compagnia Idrici Speciale Autocarrata. Gravemente
ferito nel combattimento del 28 luglio 1936, rimpatriava nel novembre successivo e, dopo
lunga degenza in ospedale, era collocato in congedo assoluto nel 1937.Richiamato in servizio,
a domanda, nel dicembre 1942 e promosso sergente, era destinato in A.O.I.. Sbarcato a Tunisi
il 13 febbraio 1943, partecipava alle operazioni, assegnato alla Direzione Lavori del Genio
della 1° Armata. Promosso Sottotenente di Complemento del Genio dal 5 maggio 1943 ed iscritto
nel Ruolo d'Onore prestava servizio alla Direzione Generale del Genio Ministero, dal luglio
al dicembre 1944. Trasferito all'Ufficio del genio di Ancona, vi rimase fino al giugno 1945 ed,
infine, alla Direzione del Genio di Bologna fino il 30 novembre 1948 quando fu ricollocato in
congedo. Ha vissuto sempre a Bologna..
Raccontare un episodio vissuto drammaticamente quarantasei anni fa, risveglia ricordi dolorosi,
ma è pur vero che quell'episodio mutò radicalmente la mia vita nel fisico e nel morale e ha
senz'altro posto le basi della mia esistenza di questi anni, tutti dedicati alla famiglia ed
al lavoro.
Tutto è cominciato nel Luglio 1935 quando venni richiamato alle armi con il grado di caporale
e destinato al 10° Reggimento Genio di S. Maria Capua Vetere che mi assegnò alla 3°Compagnia
Idrici Speciale destinata al Comando Superiore nell'Africa Orientale.
Giunto in Eritrea mi fu affidato un autocarro Lancia RO che venne da me preso in consegna con
particolare affezione, essendo tale mezzo perfettamente concomitante alle mie aspirazioni.
Inutile sottolineare la cura da me destinata a tale automezzo per tenerlo sempre in perfetta
efficienza anche durante la marcia di trasferimento ad Addis Abeba. Di tale premura ebbi ampia
ricompensa al momento opportuno. La mia Compagnia fu destinata ai vari servizi logistici fra
cui la manutenzione del modesto acquedotto che esisteva nella città e fu proprio in una di queste
mansioni che il 28 Luglio 1936 venni coinvolto nel fatto d'arme che andrò a descrivere.
Quella mattina, infatti, avevo accompagnato, come al solito, una squadra di genieri alla
periferia della città per lavori di ripristino di un piccolo acquedotto.
Mentre ero in attesa di ordini dell'Ufficiale addetto ai lavori, si udirono delle scariche di
fucile provenienti da poca distanza. L'Ufficiale, da me interpellato, non diede importanza al
fatto ritenendo che gli spari provenissero da un accampamento di carabinieri che si esercitavano.
Poco persuaso della Sua supposizione, ritenni opportuno prendere dal camion la mia bandoliera
con pistola, infilandomela a tracolla. Intanto le squadre dei Genieri erano al lavoro non
dando peso al pericolo che incombeva. I loro moschetti erano affastellati a poca distanza
dalla costruzione cui stavano lavorando, davanti alla quale c'era un piccolo recinto alto
circa un metro costruito con pietrame. L'autocarro era sulla strada, accostato sulla sinistra
con direzione apposta alla città. La distanza fra l'autocarro e il recinto dell'acquedotto
era di circa 25 metri. I moschetti erano all'esterno del recinto. All'improvviso fummo
investiti da una scarica di fucileria che provocò un grande panico in tutti, ed ognuno si
rifugiò dentro il recinto dove giungemmo tutti incolumi.
Il primo problema che si presentò fu quello di recuperare i moschetti e poiché l'unico armato
ero io, l'Ufficiale non ebbe alcun dubbio affidandomi il compito anzidetto.
Intanto si era appurato che i ribelli erano appostati dietro un muretto di pietrame, situato
lungo la strada, dalla parte opposta e pratica mente a pochi passi dall'autocarro, mentre altri
ancora stavano giungendo schiamazzando come era loro abitudine.
Senza porre altri indugi mi accinsi ad eseguire l'ordine di recupero delle armi; operazione
che svolsi in due riprese Senza essere colpito.
Pur essendo ora in possesso delle armi la situazione si presentava alquanto allarmante
soprattutto nei confronti della mia insistenza nel voler recuperare l'automezzo per il quale
ero direttamente responsabile.
Non si poteva ignorare il fatto che i ribelli erano sul ciglio della strada cioè a pochi
passi dall'autocarro e per di più erano in numero esorbitante e ben protetti dal muretto.
Inoltre l'automezzo era orientato nel senso inverso rispetto la direzione che avremmo dovuto
prendere.
A favore c'era peraltro il fatto che il motore era già in moto. Alla fine prevalse la mia
insistenza tanto che l'Ufficiale, un giovane Sottotenente di complemento, dispose i soldati
a ridosso del recinto pronti a rintuzzare l'azione dei ribelli mentre io uscii dal recinto
zigzagando verso l'autocarro con l'intento di salirci sopra ed il proposito dì partire, girare
l'autocarro nel senso giusto per poi allontanarci con tutti i compagni.
Purtroppo lo sbarramento dei genieri non fu sufficiente per disorientare i nemici tanto che vidi
diversi di loro che mi prendevano di mira. Mi buttai a terra, per diminuire l'area del bersaglio
e cercai con tutta la forza della disperazione di raggiungere carponi l'automezzo. La meta fu
da me raggiunta però le mie gambe erano già state colpite più volte. In particolare il tallone
sinistro mi provocava un dolore lancinante.
Mi accovacciai sotto l'autocarro, fra le due ruote anteriori, ed ebbi modo di costatare che i
miei commilitoni sì stavano allontanando dalla parte opposta oramai privi di ogni illusione a
favore della mia vita.
Uno di loro purtroppo rimase colpito a morte.
Intanto le 18 cartucce che avevo in dotazione si stavano- esaurendo e poiché la sorte dei
prigionieri era più che nota, cercavo di tenerne una come ultima deprecabile decisione.
Nel frattempo le ferite erano aumentate, fra loro una sul polso della mano destra che non mi
consentiva più l'uso della pistola e subito dopo anche quella sinistra ebbe la stessa sorte.
Fui colpito alla tempia sinistra; questa ferita provocò il totale crollo della mia resistenza,
tantopiù che lo stesso proiettile, dopo essere uscito sotto il mento, penetrò nel polmone destro.
A seguito di questa ultima batosta, ogni resistenza, da parte, mia cessò e per loro fu facile
stanarmi di sotto il camion trascinato lungo la strada da alcuni che mi avevano preso per il
lembo del cappotto, con il viso verso il basso.
Intanto altri mi sottoposero ad uno spietato linciaggio con botte di ogni genere, una fucilata
sulla schiena ed un colpo di daga sulla tibia sinistra che tra l'altro frantumò anche il perone.
Finalmente il cappotto si sfilò dalle braccia e mi lasciarono credendo che io fossi oramai privo
di vita.
Tutto questo martirio l'ho subito senza perdere totalmente i sensi tento che mi sono reso conto
quasi subito che ero rimasto solo. Ho potuto notare che l'autocarro era distante da me poche
decine di metri perciò, facendo assegnamento sulle mie ultime energie, ho cercato di avvicinarmi
all'automezzo arrancando con i gomiti e le ginocchia come se nuotassi per terra.
Sentivo che le forze si stavano esaurendo del tutto, mentre pensavo al grosso problema di salire
sul camion ed alle operazioni di manovra che dovevo affrontare.
A questo punto mi riesce difficile raccontare come esattamente siano andate le cose perché sono
tutte quasi incredibili. Le tracce di sangue lasciate un poco dovunque sono servite in parte
agli inquirenti a chiarire le operazioni, tanto più, come specifica la motivazione per la quale
mi è stata concessa sul campo la M.O.V.M., sono dovuto ridiscendere dall'autocarro
per rimettere in moto il motore perché si era fermato a causa delle manovre mal fatte avendo
le gambe e le mani quasi fuori uso. Non voglio indugiare neppure sulle difficoltà per mettere
in moto il Lancia RO, tramite un accumulatore di forza a volano, che soltanto un uomo in piena
energia può affrontare. A questo punto devo esporre il dubbio che, anche il mio camion avesse
un'anima, che trepidava per me e che si sia dato da fare a compenso della profusione di ogni
cura che io avevo dedicato a lui.
Come Dio volle l'automezzo si trovò sulla strada giusta, ma un'altra fatalità fece sl che il
motore si fermasse proprio quando la strada cominciava in lieve discesa così mi incamminai
erso la città a motore spento.
Ad un certo punto raggiunsi un gruppo di ribelli che si accorsero all'ultimo momento del mio
giungere e fecero in tempo a sbandare. Le raffiche colpirono ancora l'automezzo, ma non credo
la mia persona. Intanto la discesa si esauriva come pure le mie forze ed ancora una volta
l'autocarro provvide ad arrestarsi da solo andando contro uno steccato di recinzione della
costruzione dove c'era il comando di artiglieria.
Mi trovarono accasciato sulla leva del cambio, privo di conoscenza. Si resero subito conto
del pericolo che incombeva. Non fui certo in grado di riferire nulla, ma le condizioni in cui
mi trovavo ed i segni evidenti della furiosa battaglia subita dall'autocarro furono sufficienti
ad ogni bisogna.
Fui subito trasferito all'Ospedale Italiano che era il più vicino. Lo stato fisico era disperato
per il dissanguamento subito. In più alcune ferite, fra le quali quelle alla testa che aveva
lesionato il ponte zigomatico e non consentiva l'apertura della bocca, erano molto gravi. lo
stesso proiettile, uscito sotto il mento, era entrato nel polmone destro con gravi difficoltà
per la respirazione. Altre ferite che sembravano meno importanti, in seguito divennero le più
pericolose per l'infezione subentrata. Fatto è che per oltre un mese sono rimasto in bilico
tra la vita e la morte e successivamente con la minaccia di probabile amputazione di una gamba.
Ebbi l'onore di ricevere la visita delle più alte personalità fra cui il Vicerè Maresciallo
Graziani che mi annunciò di avere proposto la concessione della Medaglia d'Oro al V.M.
Decorazione che mi fu concessa sul campo dallo stesso Vicerè prima di partire per l'Italia.
La degenza all'ospedale di Addis Abeba è durata quattro mesi e cioè fino che non sono stato in
grado di essere trasportabile.
Le ferite che in un primo momento davano preoccupazione, cioè la testa ed il polmone destro,
furono le prime ad eliminare ogni pensiero. Viceversa le gambe, in particolare la sinistra,
portarono il mio stato in una situazione drammatica per un'infezione che mi procura va una
febbre oltre i 40 gradi.
Fui sottoposto a vari interventi con profonde incisioni ed applicazioni di drenaggi che mi
procurarono delle sofferenze indescrivibili. Il diario di una crocerossina, che fu pubblicato
successivamente, descrive le varie fasi della mia degenza che io stesso non sarei in grado di
esporre essendo rimasto per lungo tempo in uno stato di incoscienza. Poi anche tale periodo
fu superato, grazie all'abnegazione del personale sanitario, e fui posto in condizione di
essere trasportato al ghebi imperiale dove c'era la sede del Vicerè ed alla presenza delle
Forze Armate, fui decorato di Medaglia d'Oro al V.M. Pochi giorni dopo fui caricato su di
un treno ospedale e trasferito a Gibuti per essere imbarcato su di una nave ospedale che
giunse a Napoli alla fine del Novembre 1936.
All'Istituto Rizzoli di Bologna rimasi altri quattro mesi; 11 mi misero in grado di camminare
con due bastoni.
Da allora ho ripreso a vivere regolarmente, ho ricominciato a studiare conseguendo il diploma
di geometra.
Ho partecipato alla II' guerra mondiale sul fronte dell'Africa Settentrionale ed ho trascorso
vari mesi in prigionia. Rientrato in Italia al seguito dell'esercito alleato, sono rimasto in
servizio come sottotenente del genio fino al 1948. Ho creato una famiglia ed intrapreso
un'attività commerciale nel campo dell'edilizia che mi ha dato grandi soddisfazioni. Sono
stati anni intensi ed a volte ho dovuto affrontare circostanze difficili. Le ho sempre
superate con forza di volontà ed onestà d'intenti che sono nati in me in quel lontano 1936.
Addis Abeba 28 Luglio 1936